Il calcio italiano scopre quanto sia complicato vivere, nel senso più pieno del termine, in Italia. Se le riforme previste dalla FIGC (nei prossimi quattro anni) fossero già a regime, oggi metà dei club di serie A faticherebbe a iscriversi al campionato. Uno scenario che impone sin da subito di non concedersi alcuno strappo e suggerisce anche un legittimo dubbio: chi ha davvero voglia di approvare questo regolamento, al netto del “sì” a Gravina, presidente comunque a fine mandato?
Gabriele Gravina, sin dal primo giorno in cui si è insediato in FIGC ha immediatamente posto come condicio sine qua non una riforma strutturale dei campionati per un sistema calcio sostenibile. Le società, però, non hanno mai scelto di compiere il grande passo della riduzione della Serie A. L’idea di un massimo campionato a 18 squadre è ancora in scrivania, nella dicitura manovra “lacrime e sangue” accolta dai club più con la voglia di rifletterci su che di agire. Calcisticamente parlando, palla in tribuna, con la consapevolezza che nessuno, in fondo, spingerà per far fallire il calcio. La sensazione è che in chiusura di mandato, l’attuale presidente della FIGC voglia alzare il tiro anche in virtù dei possibili scenari che stanno maturando al di là delle Alpi dove fondi sovrani e la forza della Premier sembrano destinati a schiacciare il resto della concorrenza.
La sensazione è che si sia di fronte a soluzioni di emergenza, ma non di impatto. Le intenzioni sono note: investire sui settori giovanili, rose a tutela dei talenti italiani attraverso il rafforzamento e la partecipazione delle seconde squadre in campionati minori. E poi c’è l’aspetto economico: defiscalizzare gli investimenti sui giovani, così come quelli sulle infrastrutture, ovvero la versione 2.0 dei “bonus stadi”. Possibile anche cercare di far rientrare un po’ di capitali mettendo in soffitta il “decreto dignità” che ha impedito ogni sponsorizzazione e ricavo legato ai giochi d’azzardo, in cambio di una percentuale del ricavato. Soluzioni tampone, per fermare l’emorragia, ma per guarire serve altro.
Il vero problema del calcio italiano è e resta quello dell’indice di liquidità, vero fattore che potrebbe alterare gli equilibri. Per chi non ne fosse a conoscenza, il suddetto indice riguarda l’effettiva liquidità a disposizione dell’azienda. In altri termini, indica la capacità di fronteggiare i debiti: pari a 1, si ha disponibilità uguale al debito. Se è minore, e non è un caso che il calcio abbia fissato allo 0,8% l’asticella, significa che c’è una disponibilità insufficiente. Se passasse a 1, come è previsto nel 2028, significherebbe che tutti i club dovrebbero avere un patrimonio netto positivo. Considerando che anche la Covisoc, la commissione di vigilanza sull’operato delle società può estendere le verifiche durante i campionati, significa che il calcio italiano dovrà cambiare abitudini e pelle. La domanda è: ci riuscirà?
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