Negli anni Sessanta, spesso celebrati per la loro rivoluzione culturale e sociale, si celava un lato oscuro nel mondo dello sport. Il doping iniziava a fare capolino in maniera sempre più preoccupante, specialmente nel calcio italiano. Era un periodo in cui il clima di sospetti e ombre era sempre più presente, con le sostanze dopanti che diventavano una presenza fissa negli spogliatoi. In questo contesto, molti giocatori si trovavano a un bivio: accettare silenziosamente queste pratiche o resistere.
Un episodio emblematico di questo periodo oscuro si verificò a Genova nella primavera del 1963. Il 26 maggio, durante l’ultima giornata del campionato, il Genoa batté il Bologna grazie a un gol decisivo di Carletto Galli. Tuttavia, la squadra non poteva ancora festeggiare: i tifosi attendevano notizie da Bergamo, dove l’Atalanta giocava contro il Napoli. Quando giunse la notizia della vittoria dell’Atalanta, un boato esplose nello stadio di Marassi. Il Genoa era salvo.
La gioia fu di breve durata. Il 17 giugno, a campionato finito, un trafiletto sui giornali rivelò che tre giocatori del Genoa – Rino Carlini, Antonio Colombo e Maurizio Bruno – erano risultati positivi al controllo antidoping effettuato dopo la partita contro il Bologna. Le sostanze incriminate erano anfetamine, definite come “eccitanti atti ad alterare le prestazioni sportive”. I calciatori negarono con forza le accuse, dichiarando la loro innocenza. Anche Giacomo Cambiaso, dirigente del Genoa, si schierò in loro difesa, esprimendo stupore per le accuse.
Le indagini portarono a un processo sportivo che coinvolse anche altri giocatori, tra cui Gigi Meroni e Massimo Giacomini, che dichiararono di essersi “dimenticati” di sottoporsi al controllo antidoping, preferendo festeggiare con i tifosi. Anche Vincenzo Occhetta, capitano del Genoa, venne indagato per non aver vigilato sui compagni. Il processo sportivo fu caratterizzato da una serie di anomalie e incongruenze. La scomparsa di una delle provette con le urine dei giocatori e le testimonianze contraddittorie crearono un clima di grande confusione. Nonostante le proteste del Napoli, parte lesa in quanto retrocesso, il risultato della partita venne omologato. La giustizia sportiva sembrava restia a indagare ulteriormente, forse per paura di scoperchiare un vaso di Pandora.
Alla fine, la Commissione d’Appello Federale (C.A.F.) condannò i cinque calciatori coinvolti a una squalifica fino al 31 ottobre, ridotta poi al 10 ottobre. Una pena lieve che sollevò diversi dubbi: se i giocatori erano colpevoli, la squalifica era troppo leggera; se innocenti, era un’ingiustizia. Occhetta venne fermato fino al 2 settembre, una sanzione praticamente simbolica. La punizione più severa venne inflitta a Cambiaso, squalificato per tre anni, trasformandolo nel capro espiatorio dell’intera vicenda.
Questa storia rifletteva una realtà più ampia: il calcio italiano stava scivolando in una zona grigia, dove il confine tra lecito e illecito diventava sempre più sfumato. Molti club avevano segreti da nascondere e preferivano chiudere un occhio piuttosto che affrontare lo scandalo a viso aperto. L’episodio del Genoa rappresentava solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che avrebbe continuato a minare la credibilità dello sport nei decenni successivi.
La vicenda del Genoa-Bologna del 1963 è un esempio emblematico di come, in quegli anni, il calcio italiano fosse un microcosmo di contraddizioni e ipocrisie. La paura di affrontare la verità portò a decisioni ambigue, mentre i protagonisti cercavano disperatamente di mantenere un’immagine di integrità in un mondo sempre più contaminato da pratiche illecite. Gli anni Sessanta, quindi, non furono solo un periodo di cambiamenti positivi, ma anche di sfide etiche e morali che avrebbero richiesto decenni per essere affrontate completamente.
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