Negli anni Ottanta, l’Italia visse un vero e proprio boom dei fuoristrada, un fenomeno alimentato dal successo di modelli giapponesi come la Nissan Patrol e la Mitsubishi Pajero. Questi veicoli, spesso protagonisti di film d’avventura e bellici, catturarono l’immaginario collettivo, portando molti italiani a desiderare un’automobile capace di affrontare anche i terreni più impervi. In questo contesto di grande fermento, si manifestò anche il desiderio di creare fuoristrada italiani, capaci di competere con i modelli stranieri. Tra le iniziative più significative emerse in quel periodo, spicca la storia di Iato, un marchio che, sebbene oggi sia poco conosciuto, rappresenta un pezzo della storia automobilistica italiana.
Fondata nel 1985 a Pontedera da Francesco Cavallini, la Iato, inizialmente conosciuta come Industria Automobili Toscana, aveva l’ambizione di succedere alla Fiat nella fornitura di veicoli per le Forze Armate e per i servizi pubblici. A differenza di altri produttori che si rivolgevano a modelli di grandi dimensioni, la Iato decise di sviluppare un fuoristrada più compatto, ispirandosi al popolarissimo Suzuki SJ Samurai. Questo modello giapponese era noto per la sua maneggevolezza e prestazioni, caratteristiche particolarmente apprezzate in un mercato che stava cercando alternative più agili e versatili.
Il progetto della Iato si presentava ambizioso. La meccanica fornita da Fiat, insieme a un telaio robusto e a una carrozzeria realizzata in vetroresina, rappresentava una soluzione innovativa. La scelta della vetroresina, sebbene avesse il potenziale di ridurre il peso del veicolo, si rivelò una spada a doppio taglio. Infatti, la produzione delle scocche avveniva in Bulgaria, un fattore che aumentava i costi e complicava la logistica. Nonostante queste difficoltà, la Iato riuscì a entrare in partnership con Piaggio e il gruppo Finmetal, allargando il proprio orizzonte commerciale.
Negli anni successivi, la fabbrica della Iato fu trasferita a Nusco, in Irpinia, una zona che stava cercando di risollevarsi dopo il devastante terremoto del 1980. Questa scelta strategica permise all’azienda di beneficiare di incentivi statali, ma la strada verso la produzione non fu facile. Solo nel 1990 la Iato riuscì a lanciare il suo primo modello, un fuoristrada compatto di 406 cm di lunghezza, che prometteva prestazioni promettenti grazie a tre motorizzazioni derivate dalla Fiat Croma:
1. 1.6 a benzina
2. 2.0 a benzina
3. 1.9 turbodiesel
Tuttavia, le difficoltà non tardarono ad arrivare. Le scocche in vetroresina, a causa di problemi di qualità e logistica, arrivarono in Italia già usurate e inservibili, portando a un aumento dei costi di produzione. Il prezzo di vendita del veicolo risultò così elevato da rendere difficile la sua commercializzazione. Le vendite andarono male: delle 182 vetture prodotte, pochissime furono destinate a un uso civile. Il confronto con il Suzuki Samurai si rivelò impietoso; la concorrenza giapponese, oltre a offrire prezzi più competitivi, godeva di una rete di assistenza e di un’affidabilità ben consolidata.
Nel 1993, dopo solo tre anni di attività, la Iato dichiarò fallimento. La fabbrica di Nusco chiuse i battenti, lasciando dietro di sé un triste panorama di scocche scartate e strutture in stato di abbandono. Ma la storia della Iato non si arrestò qui. Negli anni Novanta, emerse la notizia che i terreni su cui sorgeva la fabbrica erano stati utilizzati per l’interramento di sostanze inquinanti, tra cui metalli pesanti e scorie chimiche. Questo scoprimento sollevò gravi preoccupazioni ambientali e attirò l’attenzione delle autorità.
Oggi, dopo un’opportuna bonifica, il sito della Iato ospita un’azienda di un altro settore produttivo, cancellando ogni traccia della breve e sfortunata avventura del “Samurai italiano”. Le Iato rimaste sulle strade italiane sono ormai un raro avvistamento, simbolo di un sogno di grandezza che, sebbene non si sia realizzato, rappresenta un capitolo affascinante della storia automobilistica del nostro paese. La parabola di Iato è un esempio di come le ambizioni imprenditoriali possano scontrarsi con la realtà del mercato e delle scelte strategiche, lasciando un segno indelebile nel tessuto industriale italiano.
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