Allo stadio gli insulti non mancano mai: che siano rivolti ai giocatori o all’arbitro. Scopriamo cosa ne pensano le persone
Durante una partita di calcio la tensione è alle stelle e i tifosi, spesso, si fanno trascinare dallo spirito competitivo mostrando il peggio di loro.
Non è sicuramente una novità che tifoserie rivali si insultino a vicenda, ma ultimamente questo sta avendo delle ripercussioni più gravi, soprattutto quando le vittime sono i calciatori.
Dopo i cori razzisti che hanno dilagato in numerose tifoserie nei confronti di giocatori di colore, molte persone hanno aperto gli occhi, e hanno capito che non è questo lo spirito su cui deve basarsi uno sport, qualsiasi esso sia. Ma molti invece sostengono l’opposto.
La tifoseria altro non è che un gruppo, più o meno grande di persone.
La psicologia insegna che ogni volta che si va a creare un gruppo, nascono delle dinamiche al suo interno, immaginatelo come un ecosistema in cui ognuno ha il suo posto e cerca l’approvazione dell’altro.
Le dinamiche infragruppo possono essere potenti e andare addirittura a stravolgere la personalità dei componenti che lo costituiscono, ecco perché persone apparentemente “normali e per bene” si ritrovano ad urlare a squarciagola insulti o arrivare alle mani: il senso di appartenenza al gruppo soffoca le nostre attitudini o ne esalta alcune dormienti che pensavamo di non avere.
In una giornata tipo della vostra vita, siate onesti, quante volte vi è capitato di insultare più o meno ad alta voce un’automobilista che vi ha tagliato la strada? Immaginiamo parecchie.
Questo succede perchè insulti hanno un valore catartico per le persone, che ricorrono a questi per potersi liberare da frustrazione o sentimenti repressi, in un modo che può risultare verbalmente violento.
Quanto detto fino ad ora non è una giustificazione per la condotta aggressiva delle tifoserie, ma serve per fare capire che il ricorrere agli insulti è qualcosa che capita a un gran numero di persone, in quanto si tratta di meccanismi psicologici alla base del comportamento umano su cui sicuramente si può e si deve lavorare.
Secondo un sondaggio SWG condotto su un campione di 800 persone, il 50% degli italiani considera normale insultare i giocatori, che si tratti di membri della propria squadra del cuore o di quella avversaria, e arbitri.
Gli insulti che vanno per la maggiore sono quelli espressi nei confronti della propria squadra che gioca male, a seguire troviamo quelli utili ad intimidire gli avversari con cori e minacce, mentre al terzo gradino di questa classifica troviamo gli insulti contro gli arbitri.
Per 8 italiani su 10 andare a vedere una partita dovrebbe essere un momento rilassante, addirittura da passare in famiglia, mentre per 1 italiano su 5 significa lasciasi andare in atteggiamenti poco appropriati e lasciarsi andare ad insulti e cori.
Non basterebbe un articolo intero per citare tutti i casi in cui è capitato che venissero cantati dei cori razzisti a dei giocatori di colore in campo, ma gli italiani cosa ne pensano?
Un intervistato su 5 sostiene che sia normale insultare un calciatore per la sua nazionalità e che quest’ultimo dovrebbe sopportare questi insulti come parte del pacchetto del suo lavoro e comportarsi, come si suol dire, “da professionista”, ed è un po’ come dire: “Certi insulti razzisti possono non fare piacere, ma dovete resistere e continuare a fare quello per cui siete pagati.”
Una prospettiva non molto rassicurante per il mondo dello sport e per i giovani, che sembrano essere d’accordo con questa posizione.
È come se allo stadio fosse tutto concesso, senza limiti a livello morale, di educazione o di rispetto verso l’altro, perché l’intensità del momento lo consente e fa perdere di vista quali siano le leggi morali fondamentali.
Probabilmente non serviva una ricerca per avere una conferma di questo punto di vista, eppure avere dei dati a confermare l’atteggiamento aggressivo e denigratorio delle tifoserie e dei più giovani.
Ma dovrebbe farci riflettere sul problema alla base, non tanto legato ai metodi di repressione di tali comportamenti, ma a livello educativo e culturale. Il che è ancora più grave e richiede degli interventi al di fuori dello stadio.
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