Serie A e decreto crescita, ennesima puntata. Questa volta il protagonista, suo malgrado, è il presidente della Associazione Italiana Calciatori, Umberto Calcagno. Il dirigente ha scritto una missiva al Ministro dello Sport, Andrea Abodi, e a quello dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, pregando entrambi di non prorogare il decreto crescita. Perché?
Umberto Calcagno ritiene che la proroga di un decreto (abrogato dal 1° gennaio 2024) possa essere dannosa. “Le ragioni sono legate non a interessi economici ma alla necessità di tutelare il talento e il patrimonio sportivo rappresentato dai calciatori italiani. Ai ministri. Abbiamo trasmesso un report con dati allarmanti sulla presenza di italiani e stranieri in Serie A. In alcuni casi, ci troviamo di fronte a squadre composte addirittura per il 90% solo da calciatori stranieri. Noi crediamo che solo invertendo questo trend e ristabilendo una parità competitiva tra atleti italiani e stranieri potremmo crescere come sistema, soprattutto in funzione della nostra nazionale”. Resta da capire cosa ne pensa la FIGC che ha sempre considerato l’addio al Decreto crescita un vero e proprio salvacondotto per l’economia del calcio italiano.
Ma come funziona il Decreto Crescita e come si applica al calcio? Varata nell’aprile del 2019, la norma permetteva di detassare l’ingaggio lordo dei calciatori. Tradotto in soldoni, perché di questo si tratta, prima un ingaggio da 10 milioni lordi (tutto a carico della società) corrispondeva a uno stipendio di 5,5 netti (che finivano nelle tasche del calciatore). Dopo l’introduzione del Decreto Crescita, con uno stipendio lordo di 10 milioni si poteva garantire al tesserato uno stipendio da 7,5 milioni. Di questa norma, infatti, si era beneficiata la Juventus con Cristiano Ronaldo e l’Inter, prima con Lukaku e poi con Marcus Thuram, così come la Roma con l’arrivo di Mourinho.
Le conseguenze del “no” al decreto crescita avrebbero indubbiamente ripercussioni immediate sui vivai. L’idea comune è che molte società “spendaccione”, private del paracadute fiscale, dovranno per forza di cosa cambiare filosofia e puntare su giovani, ammesso che abbiano voglia di investire nel vivaio per un rendimento negli anni piuttosto che in un instant team per vincere subito. Le polemiche si inseguono.
Del resto il calcio si lega come nessuno sport alle dinamiche popolari e populiste: è esposto alla corsa sul carro del vincitore in caso di vittorie azzurre, così come ai luoghi comuni legati al classico “i calciatori guadagnano troppo”. I numeri dicono che si parla molto di più di un gioco: l’industria del calcio ha generato 5 miliardi di euro e contribuisce al PIL, con un valore di 11,1 miliardi di euro, tradotto in circa 126.000 posti di lavoro. La tesi che i vivai sarebbero più floridi senza il decreto crescita si scontra con chi porta i risultati ottenuti dal calcio nell’ultimo biennio: Under 20 in finale mondiale, under 19 campione d’Europa e tre italiane in finale nelle coppe europee. Chi ha dunque ragione AIC o FIGC? Lo dirà il tempo…
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